Exit Strategy: tra immunità di massa e fattore C

Nei primi tempi, a noi farmacisti venivano chieste solo mascherine e gel disinfettanti. Esclusi, anche questa volta, da ogni politica sanitaria o comunicativa coordinata, ci siamo trovati, fin da subito, in prima linea senza esserlo davvero.

Ora, sempre più spesso, i cittadini chiedono al farmacista qualcosa di più. Esasperati dall’essere lasciati soli ad ascoltare il proprio respiro e a monitorare anche la minima variazione della propria temperatura basale, esausti in una meticolosa ricostruzione di possibili occasioni infettive, si lasciano andare in un “dottore, ma quando ne usciremo?”.
In effetti, hanno ragione: non esiste una exit strategy o, almeno, nessuno l’ha ancora illustrata.
Si va a tentoni, fin dall’inizio: lo abbiamo visto tutti. Si insegue il virus e anche la via per tornare ad una parvenza di normalità sarà decisa più avanti.

Tuttavia, involontariamente, il nostro Paese sembra avere preso la strada giusta non solo per contenere l’epidemia, ma anche per uscirne.

Quello che noi osservatori abbiamo considerato come confusi tentennamenti comunicativi iniziali, in realtà avevano una ragione d’essere. Mi spiego. Quando la situazione veniva drammatizzata, paventando scenari apocalittici o indossando mascherine davanti alle telecamere, forse si commetteva l’imprudenza di fomentare il panico, ma d’altro canto si descriveva uno scenario plausibile e veritiero che si sarebbe verificato se non fossero state adottate le successive misure di contenimento.

Questo approccio comunicativo, pur generando una diffusa ansia collettiva, è stato fondamentale per fare comprendere la gravità della situazione.

In modo speculare, quando inizialmente veniva raccontato che si trattava di poco più di una normale influenza, sollecitando cittadini e imprese a vivere una Milano che riparte o ad andare in piazza San Marco a provare l’ebrezza di un aperitivo gratuito, si commetteva l’imperdonabile errore di minimizzare una situazione molto seria, ma, al tempo stesso, si diceva una cosa giusta: l‘infezione, per un gran parte della popolazione, non è poi così terribile. Nessuno ha sbagliato.
Per una malattia che ha estremi opposti, con casi gravissimi e casi asintomatici, è vero tutto e il contrario di tutto.

Ma veniamo alla exit strategy: come si torna ad una parvenza di normalità? Per capirlo, abbiamo due esempi davanti agli occhi, basta saperli guardare.
Il primo è la Cina. Il secondo è Vò Euganeo, tranquillo Paese tra quelle colline che vedo affacciandomi verso ovest. Ma se giro lo sguardo a sud, vedo uno stabile cupo al cui interno c’è il laboratorio di microbiologia dell’Università di Padova. Da quel laboratorio arriveranno importanti contributi per la risposta alla domanda iniziale: “dottore, ma come se ne esce?”.

Partiamo però dalla Cina. Uno studio del Columbia University pubblicato su Science ci racconta che l’86 % delle infezioni non sia stata rilevata perché asintomatica. Infezioni sottotraccia, non registrate, invisibili. Probabilmente sviluppatesi in gennaio, quando il virus circolava silente e le misure restrittive della provincia cinese non erano ancora state adottate.

L’analisi dei dati ci indicherà la via d’uscita. Gli statistici, con i loro modelli matematici, ci diranno come fare. Ne usciremo presto, prima del previsto. Ne usciremo accerchiando la paura con due armi potenti: i numeri, appunto, e i farmaci che nel frattempo si stanno sviluppando e testando.
La cittadina di Vò Euganeo è stato isolata fin dalle prime ore dell’emergenza italiana.

Prima di chiudere tutti in casa, sono stati eseguiti tamponi diagnostici praticamente all’intera popolazione e si è visto che, già allora, il 3% della popolazione era positiva. Positiva sottotraccia chissà da quanto, chissà perché. Ma asintomatica.
Alla fine della quarantena imposta all’intero paese, l’istituto di Microbiologia di Padova ha rifatto i tamponi a tutta la popolazione, riscontrando che il numero dei positivi si era drasticamente ridotto.

Nel resto del nord Italia, invece, durante le due settimane nelle quali Vò era isolata, si è continuato a vivere normalmente, pur tra le paure e le rassicurazioni generate dalle dichiarazioni e dai provvedimenti contraddittori dei quali abbiamo accennato.

In queste due settimane di normale socialità italiana, i contagi sono cresciti in una misura che, per certo, si attesta tra l’86% della provincia cinese interessata dallo Studi della Columbia University e il 3% di Vò. Poi, la chiusura del Paese intero e la conseguente ed inevitabile riduzione dei contagi.
Solo quando sapremo quanti italiani hanno già superato la malattia potremo definire come uscirne. Ma come fare per saperlo?

Le vie sono due. La prima possibilità è quella di effettuare subito, in differenti zone del Paese, una tamponatura a campione sulla popolazione sana per poi elaborare i dati e fare delle proiezioni statistiche che ci dicano a che punto siamo. Ma va fatto subito, prima che i contagiati guariscano, altrimenti risulteranno negativi ai tamponi e le proiezioni andranno a farsi friggere.

Il secondo sistema è sviluppare un test anticorpale e vedere, sempre sulla base di analisi a campione e successive proiezioni statistiche, quanti italiani hanno sviluppato le immunoglobuline Igg specifiche.

Mi affaccio e guardo quell’edificio cupo. Penso che presto ci darà la risposta e, con essa, una ritrovata libertà individuale.
L’Italia ne uscirà. Grazie alle caratteriste che la contraddistinguono. Una combinazione tra risorse che emergono nei momenti di difficoltà e un importante fattore C tutto italiano: quello di chiudere la popolazione in casa nel momento giusto, ovvero quando l’infezione era già diffusa, ma non troppo.

Alessandro Fornaro

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