
Il CdS dispone che il professore universitario permanga nella titolarità “pro quota” e che la farmacia resti in funzione (…almeno fino alla sentenza di merito del Tar Lazio)
Vi ricordate?
Con l’ordinanza n. 5488 del 17/09/2018 [ne abbiamo fatto un cenno nella Sediva News del 19/09/2018: “La giurisprudenza amministrativa… dell’estate”] il Tar del Lazio aveva negato la sospensione del provvedimento n. 113 del 27/06/2018 con cui Roma Capitale aveva ex officio annullato – disponendo la chiusura immediata della farmacia – l’autorizzazione rilasciata l’anno precedente alle due vincitrici in forma associata di una sede romana “in qualità di co-titolari” della sede stessa, “gestita dalla società ecc.”.
Come si rileva facilmente anche da queste due notazioni virgolettate [che d’altra parte sono riportate in tutti i provvedimenti sindacali di autorizzazione all’esercizio di farmacie rilasciati ai vincitori in forma associata di sedi capitoline] il Comune di Roma aveva/ha infatti optato – su indicazioni/prescrizioni della Regione Lazio – per l’assentimento dell’autorizzazione a favore delle persone fisiche coassegnatarie della sede. Anche in questa vicenda, dunque, le due covincitrici erano state immesse nella titolarità della farmacia relativa alla sede loro assegnata personalmente, cioè pro quota o pro indiviso tra loro, ma “annotando” nel provvedimento (perché non è null’altro che una semplice “annotazione”…) che la gestione dell’esercizio sarebbe stata affidata alla sas tra le stesse formata. Rammentiamo tra parentesi che, come tutti gli interessati alle vicende concorsuali ben sanno, questa dissociazione tra titolarità – di pertinenza pro quota di tutti i farmacisti coassegnatari – e gestione – di pertinenza della società tra loro costituita – è il caposaldo della tesi affermata per la prima volta dalla Giunta emiliana, ignorata dalla più parte delle Regioni ma seguita, oltre che dal Lazio, anche da Calabria, Umbria, Abruzzo e Marche: il che vuol dire, come si è altre volte osservato, che comunque finirà l’incredibile “diaspora” [vinca cioè questa insopportabile tesi della contitolarità o quella, per noi l’unica possibile, della titolarità sociale], i feriti non si conteranno…
Ora, una delle due interessate era ed è professore universitario associato a tempo pieno, una condizione che secondo le ricorrenti avrebbe potuto/dovuto consentirle – assumendo nella sas la mera veste di accomandante – sia di mantenere la cattedra che di conservare la “contitolarità”, una tesi però disattesa dal Tar per il quale il comma 7 dell’art. 11 del Decreto Crescitalia “appare stabilire una correlazione necessaria tra contitolarità e cogestione della farmacia, quale conseguenza della partecipazione congiunta alla procedura per l’assegnazione della sede”. Ma l’ordinanza dei giudici laziali è stata ora riformata dal Consiglio di Stato [ord. 5105 del 19/10/2018] che, non volendo prendersi la briga di un pur minimo accenno ai profili di diritto della fattispecie [per la prima volta, giova sottolinearlo, all’esame del CdS], ha optato per il sollecito di una decisione di merito in primo grado, ritenendo “che, nelle more, vada accordata preferenza all’interesse dell’appellante in ragione degli effetti pregiudizievoli irreversibili che la chiusura della farmacia, anche per periodi non lunghi, può determinare, da ritenersi prevalenti su quelli a presidio dei quali si pone la qui avversata misura di ritiro”.
[N.B. evidentemente al nostro massimo organo di giustizia amministrativa importa poco degli interessi, non certo di mero fatto, dei concorrenti candidati/aspiranti a partecipare al terzo interpello laziale…]. Sta di fatto che ora le due ricorrenti – proprio in virtù di questa ordinanza – potranno continuare a gestire l’esercizio nell’augurio magari che nel frattempo l’intera materia delle incompatibilità, come del resto tutti auspichiamo, venga riesaminata in termini più aderenti alla ratio della Legge sulla concorrenza. Cosa ci insegnano le due ordinanze del Tar Lazio e del CdS?
Ben poco, ci pare, perché nessuno dei due provvedimenti può andare esente da critiche.Trascurando infatti l’eccessiva, anche per due ordinanze cautelari, laconicità e soprattutto l’improba rintracciabilità di un loro filo conduttore (se ce n’è uno) sul piano strettamente giuridico, dimenticano entrambe che – una volta che due assegnatari in forma associata sono stati immessi nella titolarità della farmacia uti singuli, e nella gestione dell’esercizio uti soci – diventano loro applicabili ambedue i sottosistemi di incompatibilità, quello dettato per i titolari in forma individuale e quello per i partecipi alle società titolari di farmacia. Perciò, indipendentemente dalla sicura compatibilità dell’incarico universitario con la veste di socio accomandante, il professore associato – uti singulus – non avrebbe potuto essere neppure immesso nella sua fantomatica “quota” di titolarità, perché interdetto dall’art. 13 della l. 475/68 [comma 1: “Il titolare di una farmacia e il direttore responsabile non possono ricoprire posti di ruolo nell’amministrazione dello Stato, compresi quelli di assistente e titolare di cattedra universitaria ecc.”; comma 2: “Il dipendente dello Stato o di un ente pubblico, qualora a seguito di pubblico concorso accetti la farmacia assegnatagli, dovrà dimettersi dal precedente impiego e l’autorizzazione alla farmacia sarà rilasciata dopo che sia intervenuto il provvedimento di accettazione delle dimissioni”], mentre – uti socius – la sua condizione di incompatibilità [ex art. 8, comma 1, lett. c), l. 362/91], impedendogli la partecipazione alla società formata con la covincitrice e quindi di adempiere al precetto del comma 7 dell’art. 11 [“mantenimento della gestione associata da parte degli stessi vincitori ecc.”], avrebbe potuto/dovuto comportare il diniego di titolarità [non importa se “pro quota” o “sociale”] o la decadenza da quest’ultima oppure, quel che è accaduto, l’annullamento d’ufficio del capzioso (per le troppe cose che dice…) provvedimento di autorizzazione.
Di tutto questo non c’è neppure l’ombra nelle due ordinanze, anche se il silenzio del Supremo Consesso può alimentare ulteriormente il sospetto e la speranza che il quadro giuridico della vicenda sia ancora tutto da scrivere: non ce ne voglia quindi la professoressa universitaria perché può darsi anche che il prossimo futuro possa arriderle. Inoltre, due parole anche sulla sas perché il Tar parrebbe supporre che questa forma sociale, se adottata da formazioni di covincitori, possa confliggere con il comma 7 dell’art. 11: ma è un tema che abbiamo già illustrato sottolineando ripetutamente che le indicazioni – a sfavore di spa e sas – sono in realtà, per il parere del CdS del 3 gennaio 2018, semplicemente “preferenziali”, come discende in termini non equivoci dall’affermazione di principio che precede tali indicazioni [“ferma restando la libertà di scelta del tipo sociale”] e che, a parte la sua perfetta ineccepibilità, è tale da non permettere a nessuno di trincerarsi dietro la Commissione speciale per contestare il “tipo sociale” optato dai vincitori in forma associata.
Da ultimo, una curiosità: con una sorprendente duplice coincidenza [di tempi e di contenuti], la risposta di un “esperto” a un quesito – riportata in questi giorni sul nostro più importante quotidiano economico e che alcuni farmacisti ci hanno prontamente recapitato [?] – ricorda che la partecipazione di un “docente universitario, come qualunque altro dipendente statale” a una “società di persone, inclusa la società in accomandita semplice, è esclusa, salvi i casi in cui la responsabilità del socio sia limitata per legge o per atto costitutivo della società stessa”, per poi concludere che “pertanto, la carica di socio accomandante, la cui responsabilità è limitata alle quote conferite, non è incompatibile purché sia effettivamente privo di poteri gestori”. Siamo d’accordo, ma – come si è visto poco fa – la compatibilità della veste di accomandante con la conservazione della cattedra è un profilo irrilevante nella questione sottoposta a Tar Lazio e CdS, in cui infatti ad aver rilievo sono soltanto le norme settoriali dell’art. 13 della l. 475/68 e dell’art. 8 della l. 472/91. Qui perciò il pur condivisibile parere dell’“esperto” non può essere di alcuna utilità.
(gustavo bacigalupo)